“Lo spazio della creatività è un luogo fisico e mentale che ha caratteristiche mutevoli, tante quante sono gli autori che lavorano nel mondo del progetto. […] In momenti diversi dell’anno, alcuni protagonisti della scena del design saranno chiamati a interpretare uno spazio che è una cellula base, una stanza parallelepipeda elementare, una scatola da riempire col proprio mondo di affezione culturale e d’immaginazione.”
Domitilla Dardi
Il confine tra personale e condiviso non è mai stato così fragile. I social network ci fanno vivere una vita pubblica parallela a quella reale, dove siamo diventati gli avatar di noi stessi. Ognuno sente il bisogno di comunicare al mondo la propria personalità per esistere: le passioni, i gusti, la playlist dell’esistenza.
Alcune forme di estremizzazione sconfinano nel patologico e nella cronaca. Ma esistono anche possibili meccanismi di difesa, attraverso la disconnessione e il veganesimo tecnologico. Ritrovare uno spazio dove coltivare l’intimità e la dimensione personale è possibile? Come selezioniamo i contenuti da condividere con l’altro e in che modo lo facciamo?
Tre interpretazioni, in inverno, primavera e autunno, ci porteranno a ragionare su questo tema, dando una propria lettura dell’argomento della “Stanza tutta per sé”.
Testo di Domitilla Dardi
Il confine tra personale e condiviso non è mai stato così fragile. I social network ci fanno vivere una vita pubblica parallela a quella reale, dove siamo diventati gli avatar di noi stessi. Ognuno sente il bisogno di comunicare al mondo la propria personalità per esistere: le passioni, i gusti, la playlist dell’esistenza.
Alcune forme di estremizzazione sconfinano nel patologico e nella cronaca. Ma esistono anche possibili meccanismi di difesa, attraverso la disconnessione e il veganesimo tecnologico. Ritrovare uno spazio dove coltivare l’intimità e la dimensione personale è possibile? Come selezioniamo i contenuti da condividere con l’altro e in che modo lo facciamo?
Tre interpretazioni, in inverno, primavera e autunno, ci porteranno a ragionare su questo tema, dando una propria lettura dell’argomento della “Stanza tutta per sé”.
Testo di Domitilla Dardi
Le due pareti autoportanti sono realizzate in legno massello di noce naturale e tessuto di lino. Il pavimento è una moquette in fibra di cocco intrecciata. Il tavolo, al centro della stanza, è stato disegnato esclusivamente per questo allestimento, anch’esso realizzato in legno massello di noce americano. Il plastico, in scala 1:20, in legno di noce americano e tessuto di lino, è realizzato interamente a mano. Le pareti della stanza sono di colore blu notte. Il soffitto è rivestito con un tessuto in cotone anch’esso blu notte.
Il progetto, è il risultato di una ricerca che ho iniziato circa due anni fa per la mia tesi di laurea magistrale al Politecnico di Milano, frutto di una collaborazione con i relatori Francesco Faccin e Francesca Balena Arista. Beata Solitudo è il rifugio dell’eremita contemporaneo – tecnologico, mutante e primitivo – una piccola casa con tutto il necessario per vivere da soli: un posto per cucinare, un posto per mangiare, un posto per lavarsi, un posto per dormire ed una soffitta per stivare i viveri e guardare le stelle, ci sono anche gli spazi per allevare gli animali e gli strumenti necessari a sfruttare le energie rinnovabili. “O beata solitudo, o sola beatitudo”, solo separandosi dal mondo e dagli altri è possibile trovare il piacere della tranquillità dell’animo. Questo rifugio è stato progettato come un prodotto piuttosto che come un’architettura definitiva; avendo una struttura rigida e autoportante è possibile collocarlo in qualsiasi parte del mondo. Le pareti di legno, concepite come dei telai, permettono di volta in volta, in base al luogo in cui l’abitacolo viene montato, di intrecciare una copertura sempre diversa: diventa una casa di tappeti se si stabilizza in Mongolia o nel deserto, di palme in Tailandia o nei paesi equatoriali, di pelle di foca in Antartide…. Beata Solitudo non vuole porsi solo come uno spazio fisico, ma vuole rappresentare anche lo stile di vita dell’eremita tecnologico mutante e primitivo.
Testo di Giuseppe Arezzi
© photo-credit / Francesco Conti
Le due pareti autoportanti sono realizzate in legno massello di noce naturale e tessuto di lino. Il pavimento è una moquette in fibra di cocco intrecciata. Il tavolo, al centro della stanza, è stato disegnato esclusivamente per questo allestimento, anch’esso realizzato in legno massello di noce americano. Il plastico, in scala 1:20, in legno di noce americano e tessuto di lino, è realizzato interamente a mano. Le pareti della stanza sono di colore blu notte. Il soffitto è rivestito con un tessuto in cotone anch’esso blu notte.
Il progetto, è il risultato di una ricerca che ho iniziato circa due anni fa per la mia tesi di laurea magistrale al Politecnico di Milano, frutto di una collaborazione con i relatori Francesco Faccin e Francesca Balena Arista. Beata Solitudo è il rifugio dell’eremita contemporaneo – tecnologico, mutante e primitivo – una piccola casa con tutto il necessario per vivere da soli: un posto per cucinare, un posto per mangiare, un posto per lavarsi, un posto per dormire ed una soffitta per stivare i viveri e guardare le stelle, ci sono anche gli spazi per allevare gli animali e gli strumenti necessari a sfruttare le energie rinnovabili. “O beata solitudo, o sola beatitudo”, solo separandosi dal mondo e dagli altri è possibile trovare il piacere della tranquillità dell’animo. Questo rifugio è stato progettato come un prodotto piuttosto che come un’architettura definitiva; avendo una struttura rigida e autoportante è possibile collocarlo in qualsiasi parte del mondo. Le pareti di legno, concepite come dei telai, permettono di volta in volta, in base al luogo in cui l’abitacolo viene montato, di intrecciare una copertura sempre diversa: diventa una casa di tappeti se si stabilizza in Mongolia o nel deserto, di palme in Tailandia o nei paesi equatoriali, di pelle di foca in Antartide…. Beata Solitudo non vuole porsi solo come uno spazio fisico, ma vuole rappresentare anche lo stile di vita dell’eremita tecnologico mutante e primitivo.
Testo di Giuseppe Arezzi
© photo-credit / Francesco Conti
Le superfici specchiate che rivestono le pareti ne sottraggono la materia, riflettendo all’infinito orizzonti del pensiero; le pareti stesse diventano grandi finestre, incorniciate da sontuosi tendaggi; il pavimento si veste di un materiale morbido e senza spigoli, una moquette dai toni pastello, che riveste anche il soffitto, come a simulare terra e cielo, ma con i valori materici di una dimora d’epoca.
La sdraio richiama le sedute balneari di una volta che rivivono di dettagli insoliti: una struttura in legno laccato e la seduta in velluto “capitonnè”. Gli ombrelli, invece che riparare dalla luce, la diffondono, diventando due paralumi oversize, impreziositi da dettagli in ottone e da un tessuto decor. Gli specchi riflettono l’immagine dello spettatore e, al contempo, sono strumenti per l’immaginazione: grazie a una galassia di stelle incise a laser, le superfici emanano una luce morbida che illumina lo spazio antistante. Le tende, realizzate in un tessuto ricamato con motivi botanici cangianti, delimitano come una scenografia il paesaggio interiore definito dalla stanza.
“Nell’ordine naturale delle cose l’interno è uno spazio prevalentemente intimo e personale e quello esterno è dedicato alla socializzazione e condivisione. Ma cosa avviene se questo assetto viene sovvertito? Piccoli dettagli agiscono come indizi del ribaltamento: una seduta da giardino con una veste domestica; alle pareti un cielo stellato che genera riflessi; e, ancora, una balconata per guardare all’infinito, anche se siamo al chiuso. Nel capovolgimento il reale incontra l’immaginazione e allora il non-senso prende il sopravvento. C’è anche spazio per il gioco dell’assurdo o per quello di parole, così un para-lume sembra un para-sole. Proiezioni, scena, set: anche loro sono parole allo specchio, che giocano a essere doppie; valide, non a caso, nel teatro e nel cinema quanto nella psicanalisi. D’altra parte quale punto d’incontro migliore del personale con il collettivo, se non quello del sogno? Benvenuti in un luogo dove quello che appare è altro da sé.”
Testo di Cristina Celestino
© photo-credits / Silvana Spera
Le superfici specchiate che rivestono le pareti ne sottraggono la materia, riflettendo all’infinito orizzonti del pensiero; le pareti stesse diventano grandi finestre, incorniciate da sontuosi tendaggi; il pavimento si veste di un materiale morbido e senza spigoli, una moquette dai toni pastello, che riveste anche il soffitto, come a simulare terra e cielo, ma con i valori materici di una dimora d’epoca.
La sdraio richiama le sedute balneari di una volta che rivivono di dettagli insoliti: una struttura in legno laccato e la seduta in velluto “capitonnè”. Gli ombrelli, invece che riparare dalla luce, la diffondono, diventando due paralumi oversize, impreziositi da dettagli in ottone e da un tessuto decor. Gli specchi riflettono l’immagine dello spettatore e, al contempo, sono strumenti per l’immaginazione: grazie a una galassia di stelle incise a laser, le superfici emanano una luce morbida che illumina lo spazio antistante. Le tende, realizzate in un tessuto ricamato con motivi botanici cangianti, delimitano come una scenografia il paesaggio interiore definito dalla stanza.
“Nell’ordine naturale delle cose l’interno è uno spazio prevalentemente intimo e personale e quello esterno è dedicato alla socializzazione e condivisione. Ma cosa avviene se questo assetto viene sovvertito? Piccoli dettagli agiscono come indizi del ribaltamento: una seduta da giardino con una veste domestica; alle pareti un cielo stellato che genera riflessi; e, ancora, una balconata per guardare all’infinito, anche se siamo al chiuso. Nel capovolgimento il reale incontra l’immaginazione e allora il non-senso prende il sopravvento. C’è anche spazio per il gioco dell’assurdo o per quello di parole, così un para-lume sembra un para-sole. Proiezioni, scena, set: anche loro sono parole allo specchio, che giocano a essere doppie; valide, non a caso, nel teatro e nel cinema quanto nella psicanalisi. D’altra parte quale punto d’incontro migliore del personale con il collettivo, se non quello del sogno? Benvenuti in un luogo dove quello che appare è altro da sé.”
Testo di Cristina Celestino
© photo-credits / Silvana Spera
“Non esiste per noi una particolare distinzione tra personale e condiviso. Lo spazio è caldo e ritmico, caratterizzato dalla presenza di un daybed bifacciale che invita alla comunicazione, all’informalità e al racconto. Lo spazio si offre per suggerire un´azione per noi di fondamentale importanza: Pensare. Per farlo abbiamo pensato all´aiuto di giganti e maestri immaginari che spingono (e sostengono) le pareti di questa stanza, cercando di dare spazio a grandi pensieri”.
GamFratesi
Superare il conflitto tra opposti, pur mantenendone la dialettica: questo uno dei tratti distintivi della coppia progettuale GamFratesi. Femminile-maschile, freddo-caldo, creatività-controllo sono tutti elementi che possono essere posti in un confronto costruttivo, se a ordinarli è la chiarezza visiva e mentale. Così anche lo spazio personale e quello condiviso possono trovare una conciliazione. Stine Gam ed Enrico Fratesi creano qui un interno pulito ma non freddo, conviviale sebbene silenzioso, delimitato ma aperto. In questa stanza si sono ritagliati un luogo dove pensare, uno spazio di concentrazione che genera benessere, ben sapendo che solo in un ambiente confortevole possiamo attingere alla nostra immaginazione profonda. L’idea nasce in pubblico o privato, di giorno o di notte, ma sempre quando siamo a nostro agio. In quel momento è come se intuizioni ed emozioni trovassero un ordine. In un istante le lezioni dei grandi del passato ci tornano alla mente in un sussurro lieve. Questa stanza è sorretta da giganti (come i telamoni e le cariatidi dei palazzi di Roma), che aprono la nostra visione e ci ricordano che tutto ha un peso; anche la materia dei pensieri.
© photo-credits / Silvana Spera
“Non esiste per noi una particolare distinzione tra personale e condiviso. Lo spazio è caldo e ritmico, caratterizzato dalla presenza di un daybed bifacciale che invita alla comunicazione, all’informalità e al racconto. Lo spazio si offre per suggerire un´azione per noi di fondamentale importanza: Pensare. Per farlo abbiamo pensato all´aiuto di giganti e maestri immaginari che spingono (e sostengono) le pareti di questa stanza, cercando di dare spazio a grandi pensieri”.
GamFratesi
Superare il conflitto tra opposti, pur mantenendone la dialettica: questo uno dei tratti distintivi della coppia progettuale GamFratesi. Femminile-maschile, freddo-caldo, creatività-controllo sono tutti elementi che possono essere posti in un confronto costruttivo, se a ordinarli è la chiarezza visiva e mentale. Così anche lo spazio personale e quello condiviso possono trovare una conciliazione. Stine Gam ed Enrico Fratesi creano qui un interno pulito ma non freddo, conviviale sebbene silenzioso, delimitato ma aperto. In questa stanza si sono ritagliati un luogo dove pensare, uno spazio di concentrazione che genera benessere, ben sapendo che solo in un ambiente confortevole possiamo attingere alla nostra immaginazione profonda. L’idea nasce in pubblico o privato, di giorno o di notte, ma sempre quando siamo a nostro agio. In quel momento è come se intuizioni ed emozioni trovassero un ordine. In un istante le lezioni dei grandi del passato ci tornano alla mente in un sussurro lieve. Questa stanza è sorretta da giganti (come i telamoni e le cariatidi dei palazzi di Roma), che aprono la nostra visione e ci ricordano che tutto ha un peso; anche la materia dei pensieri.
© photo-credits / Silvana Spera
Lo spazio che abitiamo non è perfetto e ordinato come quello delle riviste o delle pubblicità. Lo spazio che abitiamo è il riflesso della nostra imperfezione e della sua straordinaria unicità.
“Abitare significa lasciare tracce” diceva Walter Benjamin. Partendo da questo concetto, abbiamo invitato i progettisti a raccontarci il loro modo di rendere uno spazio vivo e abitato, in grado esso stesso di narrarci la storia di chi lo occupa. La “Stanza tutta per sé” diventa ancora di più uno spazio dove immaginare di mettere in scena ciò che da sempre regola la relazione tra l’uomo e il suo ambiente. Un rapporto che non è affatto lineare, ma complesso e tortuoso come l’animo umano e infinitamente variabile come la natura delle cose.
Testo di Domitilla Dardi
Lo spazio che abitiamo non è perfetto e ordinato come quello delle riviste o delle pubblicità. Lo spazio che abitiamo è il riflesso della nostra imperfezione e della sua straordinaria unicità.
“Abitare significa lasciare tracce” diceva Walter Benjamin. Partendo da questo concetto, abbiamo invitato i progettisti a raccontarci il loro modo di rendere uno spazio vivo e abitato, in grado esso stesso di narrarci la storia di chi lo occupa. La “Stanza tutta per sé” diventa ancora di più uno spazio dove immaginare di mettere in scena ciò che da sempre regola la relazione tra l’uomo e il suo ambiente. Un rapporto che non è affatto lineare, ma complesso e tortuoso come l’animo umano e infinitamente variabile come la natura delle cose.
Testo di Domitilla Dardi
“Esiste una integrità materica che ha una sua valenza estetica anche in ciò che d’essa non è mostrato. Risvolto nasce dal desiderio di mostrare la materia ceramica nella sua funzione di rivestimento musivo, ma invertendone il verso, per rivelare, dunque, il retro delle piastrelle. Su questo lato, infatti, è la funzione di presa sulla parete che determina pattern e disegno. Paradossalmente è il motivo destinato a essere impresso sul cemento a determinare il decoro e non le ragioni di gusto e/o di stile. Risvolto sintetizza in una superficie il testo decorativo e quello generato dalla funzione portante, tracciando in questo modo le superfici degli interni di nuovi pattern”.
© photo-credits / Silvana Spera
“Esiste una integrità materica che ha una sua valenza estetica anche in ciò che d’essa non è mostrato. Risvolto nasce dal desiderio di mostrare la materia ceramica nella sua funzione di rivestimento musivo, ma invertendone il verso, per rivelare, dunque, il retro delle piastrelle. Su questo lato, infatti, è la funzione di presa sulla parete che determina pattern e disegno. Paradossalmente è il motivo destinato a essere impresso sul cemento a determinare il decoro e non le ragioni di gusto e/o di stile. Risvolto sintetizza in una superficie il testo decorativo e quello generato dalla funzione portante, tracciando in questo modo le superfici degli interni di nuovi pattern”.
© photo-credits / Silvana Spera
“Sunset percorre la linea di una serie di esperimenti sulla creazione di paesaggi artificiali utilizzando elementi di arredo tradizionali: tavoli, tende e sedute. La stanza ospita un tramonto ambientato in un panorama mobile fatto di paillettes. Un tavolo, un drappo e una sola fonte luminosa mettono in scena un paesaggio artificiale, fatto di forme astratte. Il visitatore, attratto dalle superfici lucentissime, lascia le sue tracce sfiorando ogni sua superficie. Il tramonto sarà ogni giorno diverso, il risultato del passaggio del visitatore”.
© photo-credit / Silvana Sprea
“Sunset percorre la linea di una serie di esperimenti sulla creazione di paesaggi artificiali utilizzando elementi di arredo tradizionali: tavoli, tende e sedute. La stanza ospita un tramonto ambientato in un panorama mobile fatto di paillettes. Un tavolo, un drappo e una sola fonte luminosa mettono in scena un paesaggio artificiale, fatto di forme astratte. Il visitatore, attratto dalle superfici lucentissime, lascia le sue tracce sfiorando ogni sua superficie. Il tramonto sarà ogni giorno diverso, il risultato del passaggio del visitatore”.
© photo-credit / Silvana Sprea
Nel suo terzo anno di vita la “Stanza tutta per sé” prende in considerazione l’idea di ospitare. Gli autori sono chiamati a immaginare lo spazio non solo per essere abitato dalle proprie personali idee, ma anche da una persona fisica a loro scelta.
Il tema dell’ospitalità ha storicamente significati plurimi, variabili nelle diverse culture; ma oggi più che mai assume un valore che rimanda all’apertura, alla conoscenza, alla condivisione come accrescimento. La Stanza si apre agli “Ospiti desiderati” e ogni invito può divenire l’occasione per scoprire nuovi territori mentali.
Testo di Domitilla Dardi
Nel suo terzo anno di vita la “Stanza tutta per sé” prende in considerazione l’idea di ospitare. Gli autori sono chiamati a immaginare lo spazio non solo per essere abitato dalle proprie personali idee, ma anche da una persona fisica a loro scelta.
Il tema dell’ospitalità ha storicamente significati plurimi, variabili nelle diverse culture; ma oggi più che mai assume un valore che rimanda all’apertura, alla conoscenza, alla condivisione come accrescimento. La Stanza si apre agli “Ospiti desiderati” e ogni invito può divenire l’occasione per scoprire nuovi territori mentali.
Testo di Domitilla Dardi
“E se l’artigianato fosse al centro del design? Cosa succederebbe se il design non fosse solo al servizio dell’industria di massa, ma anche rivolto verso l’artigianato? E cosa succederebbe se in un mondo parallelo design e artigianato creassero un sodalizio, in cui l’input dell’artigianato nel progetto divenisse un contributo prezioso e dichiarato piuttosto che limitarsi alla banale esecuzione di rigide linee guida?”
“Il designer libanese Khaled El Mays si pone queste domande sulla relazione odierna tra artigianato e design. Lo fa a cento anni dalla nascita del Bauhaus, una scuola di pensiero che ha definito – grazie a un personaggio fondamentale come Marcel Breuer – un’idea di modernità dalla quale siamo ancora oggi condizionati. Da allora il moderno è stato identificato con un modo di produrre e progettare che aveva alla base il concetto di funzionalismo, razionalismo e di prodotto industriale rivolto al grande numero. Lo stesso Breuer fece allora una scelta tra artigianato e industria; mondi che oramai non sembrano più così antitetici. I sistemi stanno cambiando, i circuiti del design sono sempre più ampi e complessi. La vecchia idea di modernità lascia oggi spazio anche a una nuova idea di artigiano, in grado di collaborare, interpretare e progettare insieme al designer”.
Testo di Domitilla Dardi
© photo-credits / Silvana Spera
“E se l’artigianato fosse al centro del design? Cosa succederebbe se il design non fosse solo al servizio dell’industria di massa, ma anche rivolto verso l’artigianato? E cosa succederebbe se in un mondo parallelo design e artigianato creassero un sodalizio, in cui l’input dell’artigianato nel progetto divenisse un contributo prezioso e dichiarato piuttosto che limitarsi alla banale esecuzione di rigide linee guida?”
“Il designer libanese Khaled El Mays si pone queste domande sulla relazione odierna tra artigianato e design. Lo fa a cento anni dalla nascita del Bauhaus, una scuola di pensiero che ha definito – grazie a un personaggio fondamentale come Marcel Breuer – un’idea di modernità dalla quale siamo ancora oggi condizionati. Da allora il moderno è stato identificato con un modo di produrre e progettare che aveva alla base il concetto di funzionalismo, razionalismo e di prodotto industriale rivolto al grande numero. Lo stesso Breuer fece allora una scelta tra artigianato e industria; mondi che oramai non sembrano più così antitetici. I sistemi stanno cambiando, i circuiti del design sono sempre più ampi e complessi. La vecchia idea di modernità lascia oggi spazio anche a una nuova idea di artigiano, in grado di collaborare, interpretare e progettare insieme al designer”.
Testo di Domitilla Dardi
© photo-credits / Silvana Spera